Strumenti Popolari Siciliani

Il Fischietto Tradizionale Siciliano

Definizione del fischietto di terracotta. “Frischittu e Friscalettu”

G. Pitrè dedica ai fischietti un paragrafo in cui dice: - Lu friscalettu è un piffero di canna o d’argilla che usa vendersi nelle feste e in certi giorni della settimana dai feraiuoli.Circa la sua affermazione, nasce l’equivoco riferito al termine “friscaletto” e “frischitto”.

Analizzando la documentazione a disposizione, Biundi, Mortillaro, Traina, Reccella, Perez, Pitrè, Loria, Frondini, Mamia, Uccello, l’impressione che se ne ricava è che, le due espressioni sostanzialmente sono sinomiche, l’una vale l’altra. E’ probabile che ciò, sia conseguenza del fatto che, il fischietto come sostiene Schaffner, rappresenta la forma povera del flauto, quella originaria, quella che nella prospettiva d’analisi propria dell’evoluzionismo, sarebbe stata considerata attestazione di uno stadio evolutivo precedente.

Friscalettu (flauto di canna)

Chiamato anche frautu, fischiettu, frischiettu, o faraùtu,Tanti nomi diversi per il flauto diritto di canna a bocca zeppata che è uno strumento a fiato di origine greca costruito in canna mediterranea,viene prodotto artigianalmente, per realizzarlo viene usato un semplice pezzo di canna mediterranea e con la punta di un coltello o a fuoco si incidono sei o sette fori frontali e uno o due posteriori. Soffiando nel becco e modulando la chiusura dei fori con le dita, si ottiene il suono. E’ lo zufolo del pastore, rispecchia la cultura agro-pastorale, più diffuso in tutto il territorio rappresenta forse l'unico elemento artistico utilizzato nell'antica vita pastorale, in quanto fedele compagno della solitudine. Nel dopoguerra il flauto di canna, viene utilizzato nei tanti gruppi folklorici siciliani, affiancato oltre che al tamburello, alla chitarra ed alla fisarmonica,diventando strumento principe dell'orchestrina.

Lo strumento in dialetto è identificato come friscalettu, frautu, fischiettu, frischiettu o faraùtu. Parecchi suonatori ci hanno però fatto osservare che la denominazione di friscalettu o frischiettu si riferisce a strumenti di dimensioni ridotte o addirittura al semplice fischietto di canna, mentre il flauto di canna dalle dimensioni standard è indicato come frautu.

Il modello più diffuso di flauto diritto di canna a bocca zeppata nell’area del Messinese è quello con sette fori anteriori e due posteriori. Più rari, quelli con sei fori anteriori e uno posteriore.

Per la costruzione del flauto si utilizza un segmento di canna del tipo duro (Arundo donax) ricavato da piante che crescono in terreni asciutti, esposti a nord.

La prima operazione da compiere è realizzare il becco, dopodiché, si procede all’incisione della finestrella (finistredda) e del canale d’insufflazione (canaledda). Il tappo è ricavato solitamente da un ramo d’oleandro. Prima di procedere alla realizzazione dei fori si pratica un’incisione di riferimento attorno alla circonferenza della canna (non c’è una misura obbligata da rispettare, i costruttori misurano abitualmente due, tre dita dal margine inferiore della finestrella). Si praticano infine i fori anteriori, e posteriori. Anche in questo caso la distanza tra un foro e l’altro è lasciata all’esperienza del costruttore, di solito la misurazione è approssimativa e si basa sulla distanza fornita da un dito.

Per compiere tutte le varie fasi di costruzione di un flauto ci si serve abitualmente di un coltello da tasca ben appuntito. I fori successivamente, per migliorare l’intonazione dello strumento, di solito vengono gradualmente ed opportunamente allargati.
Al quadro delle presenze sul campo di flauti diritti di canna, bisogna aggiungere quella di ottone di S. Marco d’Alunzio, sui Nebrodi, che si configura come una singolare ed esclusiva emergenza strumentate, dal momento che allo stato attuale delle ricerche, non si sono avuti altri riscontri nel territorio Messinese.
Più specificamente si tratta di una particolare tipologia di flauto diritto con sei fori digitali, intonato sulla scala di Do, di produzione seriale continentale, introdotto tra gli anni Venti e Trenta nella pratica strumentale tradizionale locale da Paolo Provenzale, detto Stidda, suonatore anche di pifara o bifora (oboe popolare usato in rituali processionali con l’accompagnamento ritmico di tamburi cilindrici) che l’aveva avuto da mastru Giuseppe Graziano, sacrista, il quale a sua volta l’aveva acquistato a Palermo. Lo strumento fu ereditato successivamente dal figlio Marco, scomparso nel 1990, all’età di 80 anni, anche lui abilissimo ed apprezzato suonatore.

Le ragioni che determinarono il rapido affermarsi del nuovo strumento a S. Marco d’Alunzio, preferito da molti altri suonatori al più effimero flauto di canna, sono da ricercarsi nella stabile intonazione e nelle garanzie di durata e resistenza offerte.

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